L’aria di Bologna l’ha riportato sul parquet. Chiusa la carriera professionistica nel 2002 e dopo un periodo di stacco totale, Marco Lokar si è riavvicinato alla sua vecchia passione. E il contatto con la città dei canestri, dove lui – triestino – si è trasferito da tre anni per lavoro, in ambito finanziario, è stato decisivo. “Quando ho smesso ero in uno stato di ‘overload cibernetico’ nei confronti della pallacanestro che non ho guardato una partita per sei anni. Poi questa primavera il professor Stefano Cenni ha organizzato una squadra composta da vecchi alunni e docenti universitari. Io sono anche dottorando di ricerca e così ho riscoperto il piacere di correre con gli amici, sentire il cuoio del pallone e giocare senza stress. Ci trovavamo due volte al mese, e da lì una cosa ha tirato l’altra”. Tanto che ora Lokar s’è rimesso in gioco nel massimo campionato regionale, con i Flying Balls. E sul parquet, a ottobre, ha festeggiato i quarant’anni. “Ho cercato di ricostruire la muscolatura a partire da aprile. Il mio programma era di arrivare a un livello decente per dicembre ma ho subito un infortunio muscolare e sono stato fermo tutto luglio. Poi è iniziato il campionato e mi sono rotto il setto nasale, per la settima volta in carriera”.
Il curriculum sportivo di Lokar è piuttosto articolato. Dal Friuli, agli States, a Ozzano. “Ho iniziato a Trieste, prima al Don Bosco, poi allo Jadran, una squadra della minoranza slovena a cui io afferisco. Da lì sono passato alla Stefanel e poi agli Stati Uniti, dove ho studiato tre anni. In Italia ho fatto la trafila in varie città (Trieste, Trapani, Rieti, Napoli, ndr), poi dopo aver preso la mia seconda laurea ho pensato che era il momento di iniziare a lavorare”. L’esperienza oltre oceano l’ha visto al centro dell’attenzione per una partita da 41 punti con la maglia della Seton Hall University davanti a oltre undicimila spettatori. Ma anche per una protesta ai tempi della prima Guerra del Golfo che ebbe grande eco. “Avevo vent’anni e su certe cose a quell’età si è poco intimi a compromessi. Il governo chiese a tutte le squadre che avevano esposizione nazionale di cucire la bandiera americana sulla maglietta in segno di solidarietà. Ma io mi rifiutai, perché contrario ad ogni guerra, da un punto di vista etico e cristiano”. Seguirono reazioni spropositate. “In quel periodo queste cose avevano grande esposizione mediatica, ci fu una ridda di proteste e una bella serie di minacce, anche pesanti. Poi il mese successivo si passò a reazioni completamente opposte, con premi assolutamente immeritati, come cittadino dell’anno o sciocchezze del genere. Furono esagerate sia le critiche sia le lodi”.
E adesso una nuova vita ai Flying Balls. “Questa esperienza mi sta dando moltissimo e ho avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose. Siamo un mix di giovani di ottime potenzialità e giocatori più esperti; io sono il nonno della squadra. Non sono ancora riuscito a contribuire in maniera soddisfacente, e mi sento in debito con loro. Ma mi diverto e finchè mi vogliono cercherò di ripagarli”.
Il Resto del Carlino - Giovedì 24 novembre 2009
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